Don Carlo e la Branega, 55 anni di storia

Gianluca Ferrantin –

Ho conosciuto Don Carlo Crovetto solo pochi anni fa, quando le mie figlie hanno iniziato le lezioni di catechismo alla Mater Dei. Da subito ho avuto l’impressione di avere di fronte un sacerdote e un uomo che credevano fermamente in quello che facevano. Ad un mese dalla sua scomparsa, eccoci qua a scrivere di lui; per farlo abbiamo chiesto aiuto a Elena Lazzari, una delle persone che da sempre gli è stata più vicino.

Al termine della telefonata con lei era chiaro che, per descrivere bene tutto ciò che ha fatto, servirebbe un racconto a puntate; del resto il Don ha raggiunto il traguardo dei 70 anni di sacerdozio (festeggiati con addosso la felpa della Harley Davidson…); di questi, ben 55 li ha trascorsi proprio alla Mater Dei.
Lui, nato a Sant’Ilario, arrivò nella Branega quando il quartiere era in piena costruzione; era il periodo in cui l’Italsider dava lavoro a decine di migliaia di operai e questa fu una delle zone scelte per costruire nuovi alloggi. Ed ecco il quartiere come lo conosciamo oggi, con i palazzi che convivono con i campi e le serre dei contadini.
Tutto sommato era il posto giusto per lui, che credeva fermamente nella famiglia, nel lavoro e nel sostegno reciproco; parole chiave che, assemblate, significano comunità. E così con il quartiere ebbe i natali anche la “Comunità della Branega”.
La chiesa, con la piazza antistante, divennero in poco tempo il punto di riferimento, mentre a poca distanza si trovavano negozi, bar, scuole, un campo da tennis con tanto di spogliatoi. Al piano superiore della chiesa si trovava invece l’asilo; non era un caso, per Don Carlo i bambini rappresentavano l’anima della comunità.
Con il suo modo di fare, all’epoca un po’ ruvido, voleva educare i più piccoli a rispettare gli altri e, responsabilizzandoli, a credere in loro stessi e a tirare fuori il meglio. Elena, ad esempio, ha scoperto grazie a lui la passione per la musica, perché la chiesa ospitava le recite scolastiche e serate dedicate ai canti gregoriani. Lui stesso ha suonato l’organo fino all’ultimo, durante la messa; uno dei suoi motti era: “Cantare bene significa pregare tre volte.”
Il Don era anche un uomo di cultura; oltre ad essere parroco è stato anche giornalista, insegnante di catechismo e professore. Voleva quindi che anche i suoi ragazzi studiassero e, per aiutarli, un pomeriggio alla settimana era dedicato alle ripetizioni per tutti.
Voleva conoscere talmente bene le sue anime, da organizzare perfino una sorta di censimento delle famiglie, in modo da poter ricordare più facilmente chi abitava lì e dove; questo grazie anche al rito della benedizione delle case, che avveniva sempre con almeno tre o quattro chierichetti al seguito.
Quando gli capitava di incontrare qualcuno che non vedeva in chiesa da tanto tempo era solito dirgli: “Guardi che la sua sedia è lì in chiesa ad aspettarla!”
Per il bene del suo quartiere era disposto ad esporsi in prima persona, incurante di chi avesse di fronte.
Uno dei suoi insegnamenti preferiti era: “Ricordati che devi seminare tutti i giorni! I frutti prima o poi arrivano”. Anche per lui fu così; la gente capì ed apprezzò i suoi sforzi e nacque una collaborazione reciproca; quando era necessario fare opere di manutenzione nel quartiere e alla chiesa (che nel 1988 Don Carlo rifece anche a sue spese), si trovava sempre qualcuno disposto a collaborare.
La domenica si tenevano addirittura tre messe e, quando non c’erano funzioni religiose, la chiesa restava aperta tutte le volte che era possibile. La piazza antistante era un luogo di ritrovo per adulti e soprattutto bambini, che scappavano (per gioco) solo quando il Don cercava i chierichetti per la messa; una volta, stiamo parlando del 1977, rimase solo la piccola Elena e lui la chiamò per aiutarlo a servire messa. “Don, ma io sono una femmina!” “E dove sta scritto che non puoi farlo?!” Che sia stata la prima chierichetta? Di sicuro lui aveva una grande considerazione della figura femminile; ogni tanto amava ripetere “Se fossero le donne a governare il mondo, ci sarebbero più scuole e meno guerre”. Annarita, la catechista delle mie figlie, ha sottolineato quanto credesse nel loro lavoro, supervisionandolo ma allo stesso tempo concedendo spazio alle iniziative. Anche il volontariato femminile era molto ben visto da lui; riteneva, per farla breve, che le donne potessero contribuire a migliorare vita della chiesa. Del resto, la sua era dedicata alla Madre di Dio…
Quando giungeva l’estate, premiava i bambini più collaborativi portandoli al mare, da solo, su un furgone Volkswagen simile a quello degli hippie…
Fra gli eventi religiosi, due in particolare testimoniavano la simbiosi con il quartiere.
La Via Crucis, organizzata fuori dalla chiesa, fra le vie Branega e Stassano. Ogni stazione veniva posizionata davanti ad un portone e gli abitanti di quel palazzo si occupavano degli allestimenti.
La Festa della Mater Dei alla fine di maggio, il mese mariano. Al momento religioso si univa quello conviviale, con mangiate, musica e lotteria. Non mancavano inoltre le gite, spesso organizzate interamente da lui (viaggio, albergo, etc.); c’erano le classiche mete, come Roma e Assisi, ma anche quelle più ambiziose, come Bruxelles e la Bretagna.
Insomma, in 55 anni il Don ha visto i suoi bambini crescere ed invecchiare, li ha battezzati, comunicati e sposati; è invecchiato al loro fianco, restando sempre a disposizione di tutti e smussando il carattere spigoloso di un tempo.
Da qualche settimana la sua presenza carismatica non c’è più. Nella speranza che le porte di quella chiesa possano continuare a restare aperte, è fondamentale che il suo quartiere continui a portare avanti i suoi insegnamenti, ma di questo siamo certi. Elena e le sue amiche del coro, ad esempio, non vogliono affatto smettere di cantare, tanto meno di farlo alla Mater Dei. E così, ogni venerdì sera continuano a riunirsi, per far sentire alla gente la voce loro e del Don.